mercoledì 10 giugno 2009

ad interim




Caro il mio dottore,
queste sedute la riducono al silenzio. Mi rendo conto. Una volta, al telefono, propose di trovare un rimedio alla mia estrema inettitudine a coprire le distanze. Ha un divano, a casa sua, mi chiese? Io perplessa passai in rassegna il mobilio accessorio dei tre vani della mia dimora familiare e si', lo confermai, a lei e a me decisamente, ce n'è uno. Ecco, lo utilizzi., disse lei In altri tempi aveva detto, con voce ferma, mi utilizzi, ed io da quel momento avevo preso ad abitare e ricucire lo spazio della consunzione. Perchè usare, un pochino, come sa, consuma. Insomma, lacera.
Ricevo spesso inviti a cena, di recente. Inviti scritti su un biglietto che recita, con calligrafica follia novecentesca, due posti a tavola. Non so mai bene se questo invito sottintenda una reclame a firma di Bunuel, o se si tratti, nel finale, di un murder party senza corpo. Comunque sia, quale che sia la veste che io decida mentalmente di adottare, mi presento per sempre rivestita da quella maschera da ucccello che, come lei certo ricorda, ha fatto sì che il sogno di un morente si trasformasse in fantasia che erotica trasuda. Si tratta solo di scommettere su quale forma assuma la consegna. Perche', come lei sa, dottore, la nudità sotto l'uccello ha sempre un volto che bifronte assume rilevanza o si consegna, che chiede o che si attende un cenno. Ecco, magari solo un piccolo diniego per ottenere una promessa.
A questi inviti credo sempre di dover andare, anche per annusare fra le pieghe di un torpore ebbro che e' quello che incontravo, nottetempo, nelle vie strette dell'azzardo. Ma quale sia l'azzardo lei lo sa, e lo so io, e quindi non importa.
La casa che mi accoglie, una volta che quell'invito sia depositato su quella che mia madre si ostina a nominare con un antico nome, la guantiera, è vuota di parole. Ci sono tele dappertutto, e forme irregolari sui divani, lo zoo di venere dell'armonia, ed e' Parigi fuori, sono certa.
Quello che mi conforta e' la scommessa di poter prendere da dietro, inaspettata, la piccola irruenza delle labbra che hanno morso la firma sulla scritto, e capovolgere l'inganno. Le cortesie degli ospiti non sanno, che per passare dalla porta del dominio, occorre ricusare la pelle del possesso, insomma spossessarsi, ossessionarsi, dilatarsi, fino a lasciare che le cose siano fuori, e altrove. Persino il corpo amato, ché solo nel vederso riabitarsi nel contatto con tutto quello che di fatto noi non siamo, ci si rivela appartenente. La libertà della tua pelle mi consegna l'infinito. E un cane morde dall'inferno finché non si apre quella porta che sussura paradiso.
E quindi, questa sera, che siamo nel ridotto del teatro del suo essere silente, vengo a redimere me stessa dalla voglia di aprire quella bocca con l'offerta delle labbra, incapricciata dal barlume di certezza che mi viene per la via dell'erotismo. Insomma andrei dall'ospite in certezza che non sappia cosa accade quando declini dal dominio, quando lo sfili il dito, e ti consegni, e guardi. Lei la ricorda, dottore, la collana, che ho stretto al collo ornato da due verdi, poveri versi, al letto degli amanti. Se d'infinito amore Dio lo nutre, quel cane che di strada ne percorre, allora questa sera andrò con quell'uccello nella bocca, e l'altra bocca, e non la mia, sebbene rossa di rossetto, a risentire come non ci sia battito che passi senza segno nel corpo che lo porta, fino allo sfinimento. Insomma, sa, dottore, io non c'entro. E' la bellezza in ossessione, che fraintende le forme del silenzio.
Sua, Chiara Erenzi

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