venerdì 19 giugno 2009

13 giugno 1981





Intrufolato ecco com'ero
Come caduto giù dall'albero
E conficcato spina improvvisa
Nel fianco della terra

Cieco alla luce
Solo battito e il filo delle voci
Mentre prima battuta è la certezza
Che la sua mano tiri fuori
Il corpicino dal suo guanto umido e freddo

E sono inquieto ed impaziente
MI assesto nel mio varco
E scalcio

E poi passa di qua
Il signore del tempo
E mi rammenta che ho una dimensione
A me che ho solo 7 anni

E non ci sono dita per le dita
Né cavi tesi sopra un ponte
Fra la mia solitudine e lo stento

Dio che spavento.

Non posso, non ho strumenti, non ho protesi né ganci
Passeggio in affannoso solco
E guardo solo sbieco
Quello che mi riguarda sottolinea
La ferocia della mia impotenza
Figlio comprendo Padre accolgo
Persino la ferocia di lasciar andare

E' buio piano senza note
Le voci si confondono
C'è una stanchezza che mi rode

Sono lo scricciolo senz'ossa
Il corpicino
Son l'ombra di un bambino

Passan le ore e sento il vento sulla pelle
Si apre questo spazio intorno all'epidermide
Non ho ferite sono aperto
Alla consegna della voce e della mente

Vedo le ombre farsi gialle e arancio
I suoni dell'esterno confondersi ad un pianto
Che non è mio e non odo

Mentre voi fuori mi tenete al filo della modernissima potenza
Mi lascio scender leggerissimo
Nella bellezza -- Non è niente

Precipito rallento infine plano
C'è il cielo sotto il mondo
E tu che ascolti
dillo al Padre e dillo piano

In limine - Exibition su tavole di Marco Cazzato



La signorina Erenzi viene oggi con trentacinque minuti e sei secondi di ritardo. Si prende cura del lettino come è solita rifare ad inizio di seduta. Si stende e stringe, fra le dita, il bordo di un cuscino. Mi parla oggi di due sogni e di un fantasma.



Lo sa dottore, cosa accade, quando sognamo di essere sepolti e infine vivi? Di cosa parla quel silenzio della pelle, priva persino di respiro, mentre la pietra posa il lato che le manca e si fa dura? Lo sa dottore cosa accade, se il verde delle muffe ci trasforma in piante e ci figura?
Accade che dall'occhio appena perso al mondo si apre un universo. Ed è per quel pertugio, per quella feritoia, che cadon le rovine, togliendo spazio al dentro e rivelando un varco fuori.
E da quel varco, da quel varco, di colpo ci accorgiamo che il colore è dentro e il bianco e nero è fuori. Che sfumano le scale e che si mischiano i colori dove la finitezza ci consuma e ci fa nuovi.
Fuori, dottore mio, ci sono solo due ritratti, il primo è un sogno, l'altro di poco meno di un cavillo in esistenza.



Nel sogno io mi rivedo, da ragazza, interrogarmi sul genere del mondo, e scopro che non può che essere maschio, per la facilità d'ingresso nel tranello.


In quel cavillo che è invece l'altro sguardo, c'è una ragazza nutrita dai capelli alla placenta del disastro.


(Immagini da: www.sessantanotturno.blogspot.com)

lunedì 15 giugno 2009

Il sogno erotico



Il sogno erotico portava salvaguardia. Questo pensava Chiara rintanata dove comincia a mitigarsi la coltre che notturna inganna dal nostro essere per sempre allo scoperto. E rigirava le due mani fino a scomporre l'origami che le fotografava all'iride fissate in carta incerta, composto come opera in sordina che si riposi nella quiete che il mattino porta alla certezza avvinta al comodino. Di certo non pensava a sufficienza, appena respirava. E la sentiva la ferita che d'umore mitigata le rammentava il gioco del diletto. O mio diletto ed insperato aggancio ad una dimensione e senza anello e senza gancio. Il tiepido ed il largo e l'infinito tempo in mezzo. In mezzo alle sue gambe a fare di realtà la gioia sussurata di un timido sgambetto.

mercoledì 10 giugno 2009

ad interim




Caro il mio dottore,
queste sedute la riducono al silenzio. Mi rendo conto. Una volta, al telefono, propose di trovare un rimedio alla mia estrema inettitudine a coprire le distanze. Ha un divano, a casa sua, mi chiese? Io perplessa passai in rassegna il mobilio accessorio dei tre vani della mia dimora familiare e si', lo confermai, a lei e a me decisamente, ce n'è uno. Ecco, lo utilizzi., disse lei In altri tempi aveva detto, con voce ferma, mi utilizzi, ed io da quel momento avevo preso ad abitare e ricucire lo spazio della consunzione. Perchè usare, un pochino, come sa, consuma. Insomma, lacera.
Ricevo spesso inviti a cena, di recente. Inviti scritti su un biglietto che recita, con calligrafica follia novecentesca, due posti a tavola. Non so mai bene se questo invito sottintenda una reclame a firma di Bunuel, o se si tratti, nel finale, di un murder party senza corpo. Comunque sia, quale che sia la veste che io decida mentalmente di adottare, mi presento per sempre rivestita da quella maschera da ucccello che, come lei certo ricorda, ha fatto sì che il sogno di un morente si trasformasse in fantasia che erotica trasuda. Si tratta solo di scommettere su quale forma assuma la consegna. Perche', come lei sa, dottore, la nudità sotto l'uccello ha sempre un volto che bifronte assume rilevanza o si consegna, che chiede o che si attende un cenno. Ecco, magari solo un piccolo diniego per ottenere una promessa.
A questi inviti credo sempre di dover andare, anche per annusare fra le pieghe di un torpore ebbro che e' quello che incontravo, nottetempo, nelle vie strette dell'azzardo. Ma quale sia l'azzardo lei lo sa, e lo so io, e quindi non importa.
La casa che mi accoglie, una volta che quell'invito sia depositato su quella che mia madre si ostina a nominare con un antico nome, la guantiera, è vuota di parole. Ci sono tele dappertutto, e forme irregolari sui divani, lo zoo di venere dell'armonia, ed e' Parigi fuori, sono certa.
Quello che mi conforta e' la scommessa di poter prendere da dietro, inaspettata, la piccola irruenza delle labbra che hanno morso la firma sulla scritto, e capovolgere l'inganno. Le cortesie degli ospiti non sanno, che per passare dalla porta del dominio, occorre ricusare la pelle del possesso, insomma spossessarsi, ossessionarsi, dilatarsi, fino a lasciare che le cose siano fuori, e altrove. Persino il corpo amato, ché solo nel vederso riabitarsi nel contatto con tutto quello che di fatto noi non siamo, ci si rivela appartenente. La libertà della tua pelle mi consegna l'infinito. E un cane morde dall'inferno finché non si apre quella porta che sussura paradiso.
E quindi, questa sera, che siamo nel ridotto del teatro del suo essere silente, vengo a redimere me stessa dalla voglia di aprire quella bocca con l'offerta delle labbra, incapricciata dal barlume di certezza che mi viene per la via dell'erotismo. Insomma andrei dall'ospite in certezza che non sappia cosa accade quando declini dal dominio, quando lo sfili il dito, e ti consegni, e guardi. Lei la ricorda, dottore, la collana, che ho stretto al collo ornato da due verdi, poveri versi, al letto degli amanti. Se d'infinito amore Dio lo nutre, quel cane che di strada ne percorre, allora questa sera andrò con quell'uccello nella bocca, e l'altra bocca, e non la mia, sebbene rossa di rossetto, a risentire come non ci sia battito che passi senza segno nel corpo che lo porta, fino allo sfinimento. Insomma, sa, dottore, io non c'entro. E' la bellezza in ossessione, che fraintende le forme del silenzio.
Sua, Chiara Erenzi

venerdì 5 giugno 2009

Nel carmelo domestico

Il libro comiciava dove sfiniva l'impazienza. Allora quel qualcosa si posava come la molla scarica dell'uccellino telecomandato e rimediava nel ripasso.

Paragrafo 1, Dies Irae. La sconvolgente sensazione che un abuso avesse sotto la sottile scossa di una mossa erotica, di una movenza seducente. L'orrore e poi il dolore e poi la certa disconferma dell'umano nell'umano che dichiara guerra e freme. La vitalistica promessa dell'orrore. Quell'anca mi tormenta come Alfredino che divorava il sonno a Genna.

Paragrafo 2, L'uomo che cade. Non c'e' riparo. Mi sento esattamente come la necessaria devozione che si fa restituzione in forma di valigia. 24 ore dal disastro. Le nostre banche inutili, e invece quelle inesprimibili che hanno contenitori sterili per sangue e sperma. E noi che non apriamo mai la porta. Rumore bianco, sempre la stessa storia. Non c'e' storia.

Paragrafo 3. Quella sconsolatezza inadeguata che percorre assenza al cimitero acattolico, nel Veneto che non odora, e suda. Quel libro e' sudato, rugoso, ed e' perfetto. Gli amici lo hanno odiato, insostenibile. Se c'e' una storia, si deve andare avanti. Il lunedi'. Eppure sento certo quel respiro che dice e' sabato (non nominato, pausa ebraica).

Paragrafo 4. Occorre seppellire il canto a pochi metri dal campo, perche' qualcuno se ne curi.

Ed era Nera che schiudeva al termine gli scuri e si faceva chiara. La paziente Chiara Erenzi.

giovedì 28 maggio 2009

La prima notte di quiete


Per gli occhi, per quella stretta e riparata forma di carezza che si conforma al nostro malsicuro anelito di protezione, separazione temporanea, sospensione, era per gli occhi che passava la sua delicatezza. Ed ecco, forse non soltanto una fragilita' che il corpo porti alla luce delle cose. Un suo sistema di difesa contrapposto all'accadere. Se lo sentivo immobile al passaggio della mano, del tutto arreso all'improvviso tocco del mio palmo, da quel suo essere perfettamente fermo io mi accorgevo dell'inganno che mostra la fiducia proprio li', dove era stata la battaglia. Cosi', fermi ed arresi e certi di poter reggere tutto, san stare solo gli alberi sui quali il temporale, insostenibile, di notte si e' abbattuto.